Ehi bracco! Ma cosa fai? Annusi l’aria, annaspi tra l’aria rovente, percepisci e segui una traccia tra la polvere e fiori di timo che ti torturano gli occhi e il naso. Ma un odore nuovo, interessante e forse pungente ha catturato la tua attenzione. Segui una traccia, ora col naso in aria, ora vicino alla terra arroventata. Sali su un muro ispezioni, mi sembri fermo, mi fai sobbalzare. Poi torni indietro e riprendi l’invisibile pista. Prosegui spedito, le molecole odorose che il tuo naso registra trasmettono al tuo cervello immagini di ciò che è stato e tu segui questa che agli occhi è invisibile ma che nella tua mente canina si trasforma in una chiara strada. Rallenti, adesso dimeni leggermente la coda, fili ancora dritto ma più lento. Il collo è rigido e in asse col tuo corpo, i passi dolci e lenti un dietro l’altro, io ti sono dietro e seguo le tue orme, sei tu che comandi adesso, la vedo la lepre che ti ha rapito col suo odore, ma non è un’immagine prodotta dal cervello, è di carne, ossa e sangue, la furbacchiona si vuole sottrarre tra i cespugli di timo. Un colpo, mi ripeto, ed è secco, blocca l’attimo, ma subito si riprende, la lepre prova ad aumentare il passo ma è impedita, sale una roccia, ma con fatica, arriva il secondo colpo, l’assorbe e l’istinto la invita ancora a correre via, libera! Il terzo colpo è più forte, ha finito di tossire il piccolo 28, ma adesso ho visto arti piegarsi, pelo volare.
Ti insegue il bracco, sei la sua prima preda, lui è giovane e focoso e in salute, non ti lascerà facilmente. Ma tu sfidi lo stesso il tuo corpo martoriato e il fato. Non vi vedo più, non vi sento più. Torna il bracco sfinito e avrei tanto desiderato ti avesse tra le fauci per farci un bel regalo ponendo fine ad ogni tua sofferenza, ma ha tra le labbra solo la grande lingua rosa penzolante. Con calma ripercorro qualche passo seguendo la tua fuga, un po’ più su c’è un passaggio ma non credo tu sia riuscita ad arrivare fin qui e superarlo. Torno indietro su per il colle, ma non credo neanche fossi in grado di affrontare la dura salita. Scendo allora verso quell’angolo fitto tra erba secca e cespugli, mi sembra un buon posto dove nascondersi attendendo la fine. E adesso il bracco, festante e gioioso, ti prende e ti porta a me.
Il Bracco italiano e la caccia, oggi
Da cacciatore moderno, o meglio che vive la modernità considerandone tutti i limiti, ritengo che sia difficile parlare di caccia con il bracco italiano soprattutto al confronto dell’ampio numero di colleghi che utilizzano gli inglesi, o altri continentali, vuoi per come sta pian piano marcendo il mondo venatorio, vuoi perché si è ormai consolidata negli anni una visione negativa del nostro eccelso ausiliare, o forse semplicemente perché è cambiato in pochi anni il nostro approccio alla vita in generale e alla caccia di rimando, avendo ormai inculcato il concetto della velocità, del correre di più, di andare lontani, sempre più lontani! Ma il ritorno di un “vecchio amore”, il Bracco Italiano, grazie ad un amico allevatore di RC, mi ha distratto da questo trend dominante, non che ne fossi particolarmente coinvolto, ma devo dire che iniziavo a sentirmi in un certo modo accerchiato, mentre con il ritorno del bracco italiano in casa ho riacquistato un certo incrollabile equilibrio.
Non avevo in mente di prendere un cucciolo per problemi logistici e di spazio, né tanto meno un bracco italiano ma non ho saputo resistere a questo richiamo. Inizia in me quindi una nuova visione e volontà cinofilo-venatoria, puntare sulla diversità, convinto per esperienza pregressa che questa prima o poi ripagherà. Il bracco Italiano, che ha incarnato per troppo tempo il “nemo profeta in patria” della cinofilia moderna italiana, merita questo sforzo intellettuale e culturale da parte di cacciatori appassionati e di buona volontà. Mi sono sempre chiesto perché i cani di razza inglese o i continentali tipo kurzhaar o breton, esercitassero un appeal così forte sul cacciatore italiano, ed ho immaginato che la risposta stia nel fatto che sono ausiliari che catturano molto facilmente l’attenzione e forse sono più gestibili dal punto di vista caratteriale, il breton poi è anche facile da tenere a casa viste le ridotte dimensioni.
Il nocciolo della questione potrebbe stare proprio in questa tipicità del carattere dell’italico ausiliare, nel suo essere riflessivo, tranquillo e bonario ma non solo, a volte suscettibile, diffidente, spesso molto snob. Ho spesso avuto dei soggetti che ad osservarli nella vita di tutti i giorni, nei rapporti con altri cani o persone estranei al nucleo familiare, hanno mostrato sempre un atteggiamento remissivo, di chiusura, di paura, che a prima vista avrebbero fatto scartare a chiunque quei soggetti perché troppo timidi; invece, poi, sul campo di caccia si trasformavano in perfette macchine da carniere, forti, decisi, instancabili, non dimostrando nessuna titubanza o remore. E sempre alcuni di questi fortissimi soggetti, si rifiutavano molto spesso di cacciare o di allontanarsi dal mio fianco quando ci accompagnava qualche estraneo rafforzando in lui ancora di più l’idea che il bracco è un cane che sta tra i piedi.
Ho sempre ritenuto queste stranezze comportamentali legate al DNA di alcuni allevamenti e alla selezione effettuata negli anni. Quando si parla di Bracco Italiano la mente corre alla vita rurale, alle case di campagna della prima metà del ‘900, dove i cani sono sempre a stretto contatto con il proprietario e la famiglia, e non relegati in un box e considerati solo quei pochi giorni a settimana per la caccia. Molti hanno anche marcato l’aspetto della sua indole bonaria, ma che a mio avviso è stata malamente, a volte artatamente, interpretata da moltissimi, (pseudo)allevatori, proprietari e forse anche da giudizi di persone poco esperte, nel senso che si è avvalorato sempre più il concetto di un cane mollaccione, un “cane da cacciatori anziani” che sta in mezzo ai piedi riferendosi in particolare all’idea del grande bracco che abitava le pianure del nord Italia, alimentato a cascami del latte che lo rendevano pesante, utilizzato per brevi e poche uscite l’anno. Ed è anche vero che alcuni soggetti che hanno “dominato la scena” sul finire dello scorso secolo, forse per accentuare l’aspetto bonario e tranquillo, venivano selezionati tra quelli che presentavano eccessivo linfatismo, lo sguardo triste e smunto con doppia palpebra cadente; si concretizza allora l’idea di un cane, bonario sì, ma pesante da gestire che denota fatica già solo a guardarlo e che a tutto fa pensare tranne che ad azioni venatorie degne di nota. Muovevano passi pesanti sul terreno, soffrendo il clima sempre più caldo dei nostri autunni; guardandoli sul terreno di caccia o di prova non facevano venire trepidazione, ma ansia e il dubbio se mai fossero riusciti a risolvere.
È vero, nei decenni c’è stata la necessità di rivedere e rifondare la razza più volte, andando a trovare quei soggetti veraci che incarnassero l’idea del vero bracco italiano da caccia. Fortunatamente, infatti, esistevano, dei soggetti “migliorati” e “nettati” da tutto ciò che era superfluo e che negli anni si presentavano sul parterre della cinofilia nostrana e internazionale, parliamo allora dei bracchi dei Ronchi, delle Forre, dei Sanchi, del Boscaccio, di Silvabella e di tutti quelli a cui questi capostipiti avevano “donato” il loro DNA, presente ancora oggi in molti allevamenti che hanno segnato il nuovo corso del bracco italiano; troviamo allora pelle sì abbondante, ma non cadente, occhio buono ma vispo e intelligente, nessuna palpebra cadente né tantomeno il labbro che mostra una connessura labiale ben visibile ma asciutta; riguardo al carattere bonario poi, questo si riferisce alle fasi di riposo o alla vita a casa, al rapporto con il padrone e gli altri esseri umani, divenendo invece irrefrenabile vivacità a caccia. Ma proprio l’aspetto venatorio è l’altra problematica relativa all’essere Bracco Italiano, perché tutto il lavoro fatto negli anni, relativamente alla morfologia e all’aspetto esteriore e alla ricerca del cane bello a vedersi, che ha portato ad una selezione di stile e di aspetto di ottimi cani da ring, non ha spesso tenuto conto del dato cruciale dell’atto venatorio, così è successo che “l’amore per la bellezza, l’attaccamento ai canoni dello standard, il culto per la purezza…” ci abbiano spesso portato fuori strada, dimenticando che l’essenza di questo nobile ausiliare è la Caccia. (M.Scheggi)
Un cane da caccia
Con opportuni incroci e accurata selezione alcuni allevatori hanno saputo mantenere o forse resuscitare ciò che sembrava smarrito il “Kalòs kai Agatos”(bello e bravo): negli anni ’50 del novecento, infatti, si era riusciti a ritrovare soggetti prestanti, giustamente proporzionati, con ottime doti olfattive e venatorie, asciutti e dinamici. Pur con diverse prospettive e vedute, ma tutte incentrate sul bene e il miglioramento della razza, la storia del moderno Bracco Italiano da Caccia passa dai Ciceri (Paolo in primis e Luigi) ad Amaldi, da Griziotti a Delor, da Urzì a Bonasegale, ma è merito anche di tanti altri loro contemporanei e di tutti quelli a seguire, troppo pochi ancora a dire il vero, che ancora oggi coltivano la passione per il Bracco Italiano su quel solco tracciato.
Nonostante questi sforzi di dare alla razza la giusta dimensione e visibilità, continua negli anni a cristallizzarsi l’idea di quel bracco italiano che, per l’immaginario del cacciatore medio, significava solo caccia su terreni piatti e pianeggianti. È vero che su terreno piano il bracco esalta le proprie doti di trottatore ma esattamente come le esaltano i galoppatori. Eppure alcuni allevatori storici e cacciatori parlano di caccia alpina con il bracco italiano (di discendenza piacentina in particolare), perché vivevano e vivono in prossimità di comprensori alpini e perché hanno selezionato quella linea di sangue, con le giuste dimensioni e proporzioni che consente ai soggetti di destreggiarsi egregiamente anche su terreni fortemente sconnessi e scoscesi, ricchi di dislivelli e muri a secco, aggiungerei io, visto che mi trovo in terra di Sicilia dove tali strutture abbondano. Terreni difficili e fortemente scoscesi ma “su cui il bracco con la sua capacità e intelligenza, sa risparmiare tanta strada” (Edmondo Amaldi allevamento delle Forre, in riferimento alla caccia alpina con il bracco). Ed è proprio questa la marcia in più del bracco italiano, non la capacità di adattarsi, non solo almeno, ma di trovarsi a proprio agio su diversi terreni dai più ampi e ripidi, agli acquitrinosi, spinosi o boschivi senza perdere in stile e caratteristiche di razza, cosa che succede invece ad altre razze estere costrette a sacrificare il proprio stile per adattarsi alle condizioni del terreno.
È nuovamente intorno agli anni ’90 che iniziamo a rivedere soggetti, non piccoli di corporatura ma non spropositati, più compatti e proporzionati, trottatori dinamici, in grado all’occorrenza di avere fondo che a volte mette in difficoltà quei cacciatori solitari, come il sottoscritto, che affrontano terreni con pendenze notevoli. Più di un trentennio fa, quando ospitai in casa il mio primo Bracco Italiano da caccia, mio padre, io stesso e molti altri rimanemmo stupiti da quel soggetto infaticabile, atletico, intelligente e venatoriamente eccelso che era Zeiro della Croccia (fratello del più famoso Zoran Di Massimo Scheggi, che sarà poi nonno dell’ancor più famoso Tre dei Sanchi e bisnonno di Pepe dei Sanchi). Tutti si aspettavano un cane goffo, pesante, con ampia giogaia e con l’eterna congiuntivite oculare, da utilizzare solo nei mesi freddi siciliani, invece era tutto l’opposto. Allora non c’era grande informazione in Sicilia a proposito della razza, a parte qualche articolo su Diana e la letteratura, così per la scelta mi orientai ad istinto affidandomi in primis ad un allevatore serio, per le informazioni che avevamo raccolto in giro; non di poco conto, nella scelta, incise il fatto che il capostipite appartenesse all’allevamento delle Forre e che fosse un allevamento del sud che incrociava soggetti da caccia abituati ad un clima e ad un territorio simile al mio. Ci vidi giusto, perché ebbi un Bracco italiano forse non perfetto nello stile di caccia, ma per mia mancanza e inesperienza, ma il non plus ultra nell’attività venatoria dalla caccia al coniglio alla quaglia, dalla lepre alla beccaccia, dalla coturnice al fagiano di gabbia.
Il cucciolo che ho oggi, Ibleo, è straordinariamente una fotocopia di Zeiro, dal punto di vista fisico, ma noto dei miglioramenti nella struttura molto positivi essendo più atletico e tonico, il suo atteggiamento venatorio mi ha già molto impressionato soprattutto nei confronti degli scolopacidi verso cui sembra mostrare una predisposizione naturale.
Oggi, grazie agli strumenti tecnologici e ai nuovi media a nostra disposizione, abbiamo la possibilità di avere una panoramica in tempo reale e ad ampio raggio sulla salute della razza in Italia e devo dire che tra i prodotti degli allevamenti riconosciuti e conosciuti e, torno a sottolineare, di molti cacciatori appassionati, si nota un netto miglioramento delle dinamiche del Bracco, ma di strada se ne deve fare ancora tanta, perché si vedono soggetti che rischiano ancora paurosamente di compromettere il lavoro duro dei pochi allevatori seri e amanti della razza che vengono purtroppo avversati da giudizi di persone poco esperte. Ma voglio essere ottimista e penso che finalmente molti amanti della razza avranno la possibilità di scegliere tra quei bracchi che sono tornati alla giusta dimensione, non solo fisica ma anche psichica, di un cane a tutta caccia che attua una cerca con stile e tenacia, che serve la doppietta (rubo lo spunto al pointer di Gramignani), che con carattere e ragionamento, olfatto, aviquerenza e intelligenza riempie gli occhi e il cuore del compagno di caccia a due zampe.
Perché si considera il bracco italiano un cane che ragiona
L’aspetto riflessivo è di sicuro una delle caratteristiche del nostro bracco, qualcuno si potrebbe chiedere se sono doti essenziali in questa razza. La risposta la troviamo nelle parole di Paolo Ciceri che sosteneva le “qualità morali” dell’amato bracco, intese come intelligenza e ragionamento, sono alla base della riuscita di un cane da caccia e della sua capacità di risolvere i problemi venatori. Il bracco italiano a caccia ragiona sempre su come affrontare il terreno per raggiungere il risultato, che si badi bene non consiste nel solo atto dello scovare il selvatico in qualunque modo, ma consiste nello scovarlo consentendo al novello “Nembrod” di incarnierarlo, e questo è un elemento cardine di tutta la cinegetica e la cinofilia venatoria che strada facendo abbiamo iniziato a smarrire, per tutte le razze canine da caccia.
La cerca del Bracco Italiano
Le immagini che si moltiplicano a dismisura sui social di bracchi in ferma dicono molto ma non tutto del nostro ausiliare perché se si sta parlando di un cane da ferma, e il bracco italiano lo è, deve fermare, la cosa deve essere più che scontata. Secondo me, invece, la dote che più conta e che fa veramente la differenza sul terreno è la cerca costante, giustamente ampia ed avida che nonostante tutto sarà sempre serva all’istinto del collegamento. Così “basterà un fischio, un richiamo anche nel mezzo della più fervida azione, a far rientrare l’ausiliare dal suo padrone”. (Paolo Ciceri)
E anche per Cesare Bonasegale, la cerca deve essere funzionale al reperimento della selvaggina, esplorando il territorio circostante con dovizia. L’andatura deve essere proporzionata e sufficientemente veloce da rendere accettabili i tempi d’esplorazione, se troppo lenta diviene poco proficua.
E fu proprio la descrizione del tipo di cerca illustrato da Ciceri o Amaldi che mi spinse a scegliere un Bracco italiano. Abituato a cacciare su terreno libero, la valutazione che feci allora era che i luoghi di caccia si sarebbero rarefatti sempre di più, insieme alla selvaggina disponibile, diventando sempre più impervi ed ostici, riducendosi spesso a degli striminziti fazzoletti di terreno utile, tra un coltivo ed un altro, offrendo pochissimi spazi per quegli ausiliari che necessitavano di ampiezza per esprimere il loro stile di cerca, vedendo, invece, qui sacrificata la loro natura; allora, come ancora oggi sono convinto, valutai necessari soggetti in grado di adattarsi al terreno disponibile, animali atti a reperire capi e a cacciare procurando giovamento al proprio padrone, su terreni misti, elaborati, diroccati e disagevoli dove sono richiesti raziocinio e discernimento, dove per recuperare un animale disalato, una lepre ferita occorrono cerca minuziosa e ragionamento, e il bracco italiano, tra i pochissimi, era ed è uno di questi. Pur consapevole che queste caratteristiche appartengono al cane intelligente di qualsiasi razza, rimanevo convinto, e lo sono tutt’ora, che il bracco italiano ne presenta un’attitudine particolare, genetica, al di là delle qualità cerebrali.
Per esperienza sappiamo tutti, più o meno, che un cane può avere ferma solidissima e un ottimo naso, ma se non cerca o non sa cercare non sarà mai in grado di reperire la selvaggina sul terreno o comunque la troverà male. L’aspetto che ho sempre amato del bracco italiano è lo stile della cerca, quel suo modo particolare di reperire il selvatico sul terreno, sapendo coinvolgere il cacciatore, non tagliandolo cioè fuori dall’azione. Per il nostro Bracco si aggiunga che non è tale se non ha espressione di cerca da Bracco. L’espressione di cerca è un concetto che prescinde andatura e velocità e riguarda più che altro la psiche unica del nostro Bracco e il suo stile. Lo stile, cioè il “modo in cui ciascuna razza svolge la funzione” (C.Bonasegale), non è un concetto sacrificabile sull’altare della velocità, perché se muore questo muore anche la razza, ma è anche vero che un cane ricco di stile che non svolge a dovere la propria funzione non serve a nulla, né per la sua razza né per il suo cacciatore ed è comunque destinato all’oblio. Durante la fase della cerca, lo stile dell’andatura del bracco è sicuramente il trotto, che può essere stilato o spinto, ed è un movimento legato alle sue capacità cognitive, allo stesso concetto del “disinstricare le malizie” messe in atto da qualsiasi selvatico su qualsiasi terreno. E una volta agganciato l’effluvio del selvatico, il bracco italiano è come un “lottatore che colla forza e l’intelligenza compie un lavoro progressivo e aggrediente per individuare il selvatico” (Amaldi).
Al contrario un’andatura esasperata, robotizzata e forzata, anche se in stile, sarà non solo brutta a vedersi ma addirittura non consentirà di esplicitare a dovere la sua funzione cioè quel modo di cercare ragionato e intelligente che in maniera tipica possiamo osservare nel momento in cui il bracco gira nel suo lacet trovandosi il vento di fronte, la testa sarà allora alta per captare gli effluvi che si trovano ad uno strato superiore, che verranno rapidamente analizzati e che lo condurranno alla fonte dell’emanazione, qualora ci sia, altrimenti ripartirà al trotto. La passione lo condurrà su e giù per calanchi e costoni, e l’intelligenza gli farà risparmiare tanta strada (Amaldi) queste le altre qualità da pretendere dal bracco italiano quando è a caccia ed in cerca, altrimenti, come consigliava Cesare Bonasegale, saranno soggetti da destinare veramente al divano come cani da compagnia.
Il momento della cerca nel Bracco Italiano si sviluppa con senso metodico, cioè si svolge in modo diverso rispetto ad ausiliari di altre razze, perché, guidato da un profondo senso del selvatico, il cane ispeziona in primis quei luoghi che potrebbero ospitare la selvaggina a secondo della conformazione e delle caratteristiche del terreno su cui si caccia e sulla base di quell’atavico istinto che la caccia e la corretta selezione hanno creato. Non sarà cosa poco comune, quindi, che intenti ad affrontare un prato aperto, noterete che il bracco si porterà a ridosso delle zone con erba più alta o dei contorni del campo dove vi sono cespugli e siepi, in quanto istintivamente sa che entrando in scena due predatori (voi e lui), le prede cercheranno di nascondersi nel folto e quindi, sempre seguendo l’istinto da cacciatore/predatore, lì le va a cercare.
Eventuali accertamenti che interrompono il corso di un’azione sono da intendersi come un voler sincerarsi della fonte di una data emanazione. È lì che allora si avrà modo di valutare e interpretare se il cane è vero bracco, da come aggancia l’effluvio, da come getta gli arti e muove la coda fino alla ferma o alla ripartenza alla ricerca di un’emanazione più fresca. Ma, ricordiamolo pure, il bracco è un vero cacciatore pertanto, all’occorrenza e per il beneficio del suo compagno, se lo ritiene necessario inizia anche a “pistare” quei selvatici che si sottraggono di pedina restii ad involarsi.
Durante la fase della cerca una delle maggiori accuse che si rivolge all’italico ausiliare è quello di averla ristretta. Ma gettando uno sguardo al nostro passato e alla nostra storia riprendiamo le sempre attuali parole di Edmondo Amaldi: << la cerca del bracco italiano si intende ristretta non perché limitata ma perché è soggetta al potente istinto del collegamento>> questa va avanti secondo “una progrediente sviscerazione di effluvi” con un movimento plastico che conduce alla ferma solo in presenza del selvatico, altrimenti fa ripartire il cane al trotto a cercare altre fonti. Si noti che entrambi parlano di ricerca legata al collegamento e non di cerca ristretta che è stata una delle pecche del bracco italiano moderno, chiaro retaggio genetico del pesante bracco lombardo. (Griziotti)
Ma è anche vero che la cerca ristretta effettivamente esiste ed è il risultato scadente o negativo, di quei cacciatori della domenica che distinguono un cane solo perché si vede il naso e la coda, essendo praticamente incapaci di creare una qualsiasi forma di collegamento con il proprio ausiliare o rappresenta la normale attività di una cane di scarto a qualsiasi razza esso appartenga, delle due l’una e nella sciagura entrambe. Nella cerca un cane che spazia seguendo le sue narici, non può e non deve essere continuamente richiamato o redarguito, altrimenti perde lo stimolo e diventa introverso e timoroso avendo sempre remora di sbagliare (e questo accade soprattutto con il bracco che ha in grande considerazione lo stato d’animo del padrone ed ha una psiche molto sensibile) ecco che allora non si allontanerà più dal solco tracciato dal cacciatore/padrone. Non esistono cani da ferma a grande cerca o a cerca ristretta, “esistono cani buoni e cani grami” (C.Bonasegale) e la differenza spesso la fa il compagno a due gambe. Con il bracco italiano ( ma a me è capitato anche con altre razze come il Breton) si deve instaurare un rapporto di fiducia reciproco e di collaborazione in modo che l’ausiliare non faccia altro che palesare quello che anni di selezione hanno scolpito nel suo istinto cioè che il suo lavoro è finalizzato a scovare la selvaggina per consentire al compagno umano di catturarla, concetto che è poi alla base del collegamento. Per quei cani che sono inizialmente sprovvisti di tale criterio, per giovane età o eccessiva foga, è allora necessario che maturando comprendano che lo scovare la selvaggina solo per loro piacimento produrrà solo azioni monche perché non gli regaleranno mai la gioia di abboccare il selvatico e riportarlo al padrone.
Stile e funzione
Ma proviamo a trovare una giusta dimensione tra lo stile e la funzione. In soldoni ci chiediamo cos’è meglio una bella cerca, che dà frutti modesti, o una cerca magari non perfettamente in stile ma che ci soddisfa ampiamente in termini di incontro con i selvatici e, perché no, di carniere? Certamente per gli stilisti l’occhio vorrà la sua parte maggiore, ma per il cacciatore potrebbe valere il contrario. Anche se un cane che esegue una cerca perfetta, non imposta artificialmente, ed in stile col suo genus darà senza dubbio i suoi frutti.
Quando osservo un bracco italiano, sono consapevole di osservare un pezzo della nostra storia patria e già solo per questo motivo andrebbe salvaguardato, ma se l’estetica e lo stile che lo caratterizzano e lo rendono unico non trovano corrispondenza poi nella funzione, beh, allora, rimane solo un oggetto da museo, ricordo dei bei tempi andati, incapace di trovare alcuna collocazione pratica nel mondo venatorio contemporaneo.
Penso che gli amanti della razza, abbiano il compito e il dovere di salvaguardarla per tramandarla funzionale agli utilizzatori del futuro. Ma mi chiedo: si sta facendo abbastanza? Ritengo che ci sia un buon numero di utilizzatori in ambito venatorio, che ricevano adeguate soddisfazioni dal fatto di accompagnarsi a caccia con un bracco italiano. Ma di remore da dissipare ce ne sono ancora tante. È vero che si ha la possibilità di leggere dei testi che esprimono tutte le caratteristiche salienti e la meraviglia di avere un bracco italiano, sono scritti bene e da personaggi autorevoli ma sono ancora pochi e legati ad un periodo estremamente lontano, soprattutto se calcoliamo il tempo con le lancette effimere dell’era dei social media. Manca, secondo me, che vengano individuati e valorizzati altri argomenti che possano attrarre e interessare vecchi e nuovi appassionati.
E così nell’intento di valorizzare ancora una volta il nostro italico ausiliare mi piace continuare a parlarne cercando di fugare le leggende da bar, o meglio da circolo, che aleggiano sulla sua figura. Riguardo a questo punto idee ce ne sono abbastanza, ma alquanto confuse, perché come spesso capita nel nostro paese si parla senza prima conoscere. E allora si vuole un bracco veloce e leggero, snello e corridor. È vero, abbiamo avuto nella storia due tipi di bracco il bracco leggero effettivamente piccolo e snello e il grande bracco possente e autoritario; tralasciando concetti strampalati su bracchi italiani simil kurzhaar o che ricordano vagamente il “famigerato” bracco-pointer degli anni ’60, secondo il mio modesto punto di vista, tra bracco leggero e grande bracco, in medio stat virtus, cioè un bracco italiano deve avere la sua presenza e stazza corporea in quanto deve dominare il terreno e la vegetazione, ma è obbligo che debba avere la prestanza fisica e una struttura ossea e muscolare in modo che sia atletico, tratti decisi e marcati, una testa massiccia coronata da orecchie lunghe ma non eccessivamente, quello che sicuramente non deve avere è la pelle eccessiva, lo sguardo emaciato con ectoprion e labbra cascanti e bavose.
Lungi da me la pretesa di essere uno scrittore cinotecnico o avere velleità da giudice o allevatore, rimango pur sempre un semplice cacciatore appassionato utilizzatore, ma anche osservatore di questa razza. Ho notato, non solo io a dire il vero, che negli ultimi anni la razza ha subito dei cambiamenti seguendo l’onda del “veloce è bello”, siamo così passati da un eccesso ad un altro; prima vi sono stati bracchi appesantiti che stavano tra i piedi, oggi vi sono cani che corrono. E siccome il bracco alleggerito tende al galoppo molto più che al trotto allora, con metodi coercitivi, ci troviamo esemplari che non galoppano più ma che procedono con un trotto estremamente serrato, robotizzato e meccanico spaziando tanto, a volte troppo, spesso senza motivo, perdendo quella naturale morbidezza del movimento che è caratteristica di questa razza e seguendo il cattivo esempio di altre razze e che a vedersi sono uno spettacolo ridicolo.
Con le dovute eccezioni si intende, perché quando si ha la possibilità di partecipare anche come spettatori ai field-trials che sono la giusta via di mezzo tra funzione venatoria e gara, si potrà facilmente notare, e ne sono stato sempre convinto, che a monte, e in più di qualche rinomato allevamento, esiste sempre un determinato e ben consolidato DNA che ha attraversato trasversalmente i decenni ed ha caratterizzato molti soggetti riproduttori, contraddistinguendo, ieri come oggi, diversi bracchi di pregio che erano, sono e saranno sempre i “dominatori del terreno”, sempre gli stessi e sempre appartenenti a quelle date correnti di sangue che nel corso degli anni, tra una generazione e l’altra, sono state arricchite dall’apporto di soggetti validi andando sempre di più a consolidare quell’unicum stilistico e funzionale. Cerchiamo allora di individuare tutti questi aspetti, da quelli somatici a quelli comportamentali per provare a fare un quadro di come deve essere il Bracco italiano moderno.
L’andatura del bracco italiano: Trotto o galoppo?
Il bracco italiano è per antonomasia un trottatore, trovando la sua peculiarità distintiva di razza in questo suo passo. Lo abbiamo detto più volte e ce lo sentiamo dire di continuo che questo stile rappresenta l’aspetto cruciale della razza, può essere stilato o spinto, mai lento e mai robotizzato frutto di coercizione in fase di addestramento. Ma, ricordando le sagge considerazioni di Bonasegale su stile e funzione, cosa succederebbe al nostro bracco se semplicemente galoppasse e solo ogni tanto trottasse? Molti di sicuro inorridirebbero, in quasi tutte le gare verrebbe tagliato fuori o avrebbe punteggio basso, ma se ne avessi uno in grado di cacciare come piace a me, in grado di scovare i selvatici, di fermarli, guidarli, accostarli e recuperarli quando necessario, penso che sarei un cacciatore soddisfatto e non subirei alcuna frustrazione dal galoppo da bracco del mio ausiliare.
Se il bracco italiano galoppa, non avrà mai l’andatura o lo stile del kurzhaar o del pointer, ma sarà un galoppo da bracco italiano e sarà amabile, morbido e caratteristico di razza anche in questa andatura. Ogni cane sceglie l’andatura che più si confà alla sua struttura e con cui porta a spasso il proprio naso. Ritengo che quello che dovremmo alla fine apprezzare sarà la ricerca del selvatico, il reperimento delle molecole prima, seguito poi dalla fase dell’accostamento, della guidata, ferma ed eventuale filata.
E se il bracco galoppa allora? Voglio essere contro corrente, ma a me il bracco che galoppa da bracco italiano piace molto; mi riferisco ovviamente a quello stile che non si traduce in un movimento rabbioso e nevrile, ma in un galoppo tranquillo che consenta al cane di superare agevolmente luoghi privi di interessi e di effluvi, e che si trasformi successivamente in trotto, filata e ferma appena agganciata la molecola odorosa. È vero che, come diceva Paolo Ciceri, il bracco è un animale con struttura massiccia, e dovrà avere come stile il trotto non perché il bracco non sappia galoppare, ma perché per la sua struttura e la conformazione e portamento di collo, testa e canna nasale, trova molto più “comodo” e redditizio utilizzare questa andatura, ma è pur vero che quei bracchi con peso medio e che hanno strutture da lottatori massicce ed agili allo stesso tempo, non vedo perché debbano essere ingabbiati nell’andatura del trotto che poi ci si sforzerà di far divenire veloce e serrato per rispondere alle “esigenze di mercato” sfatando l’idea del bracco italiano come cane lento.
Sono d’accordissimo sul fatto che sul terreno il portamento debba essere nobile e fiero, ma sempre fluido non meccanico e senza scatti; il galoppo, che i grandi allevatori chiamavano il “galoppone”, senza tradursi in corsa irrefrenabile è invece un movimento dettato dalla passione ed eseguito nei giusti tempi e con la giusta armonia. Lo sosteneva Edmondo Amaldi diversi anni fa e oggi, sottoscrivo il suo pensiero, risulta più facile trovare bracchi italiani che si lanciano al galoppo, perché alcuni allevatori hanno avuto l’accortezza di alleggerire la loro figura rispetto al “grande Bracco” molto presente fino al secondo dopoguerra. Un bracco di neanche 30kg difficilmente si metterà al trotto se non ha fatto almeno un’ora di caccia col suo galoppo, a meno che non abbia subito costrizioni.
Qualcuno vuole che si tratti pur sempre di un atteggiamento perpetrato negli attimi iniziali della cacciata giusto per sgranchirsi, prendendo poi il sopravvento lo stile del trotto spinto, e non dettato dalla stanchezza fisica; però, come già accennato in precedenza, io adoro nel bracco italiano questo galoppo morbido e fluido che gli consenta di coprire un’ampia fascia di terreno e di percorrere in poco tempo un’area interessante, rispetto a un trotto rapido, serrato e veloce che non mi piace visivamente, non riesco proprio a digerirlo dal punto di vista estetico. Preferisco, inoltre, che la fase di trotto venga alternata, anche in sub ordine, al galoppo, fin quando il cane va in emanazione e inizia a rallentare, divenendo preludio alla guidata e alla ferma.
“Il bracco verrà da sé”
Parole ineccepibili queste di Franco Sanchi, dell’omonimo allevamento, ma che poi dovrebbero valere con qualsiasi razza selezionata rispettando le fondamenta stesse del genus. È certo, però, che queste parole racchiudono tutto il mondo del bracco italiano e tutta la visione diversa della realtà che ci circonda quando si possiede un bracco. Sono cani che hanno bisogno di maturare, di interiorizzare l’attività venatoria per proprio conto. Dimenticate le azioni fulminee e celeri, qui si pensa, si riflette e si ragiona sul minimo effluvio di selvatico per risalirne fino alla fonte. E per chi caccia in terreno libero, sa quanto questo sia di vitale importanza ai fini venatori.
La vision venatoria del bracco appartiene solo a lui e i tempi li detta lui, qualsiasi forzatura verrà interpretata come costrizione e otterrà come risposta atteggiamenti paurosi e oltre modo di timidezza. Se possedete un giovane bracco e lo portate a caccia con un cane più esperiente della stessa razza o diversa, noterete che il bracco farà sempre la sua strada, alla scoperta del mondo per conto proprio pur rimanendo sempre attento e vigile a ciò che succede intorno a lui. Assorbe e fagocita ogni azione, ogni sensazione, ogni reazione, ogni odore; poi inizierà a muovere piccoli e mesti passi venatori, ma vi renderete conto che non si tratta di azioni timide verso i selvatici, né di superficialità o al contrario irruenza illogica se forza la mano, ma sta solo prendendo le giuste misure e la confidenza necessaria con la selvaggina, poi, ad un certo punto, quando si sentirà sufficientemente sicuro dei propri mezzi, esploderà in tutta la sua forza e intelligenza canina, rivelandosi per quell’opera d’arte di carne che è!
Chi non ha pazienza, chi ha atteggiamento da padrone, chi vuole tutto e subito, chi è in gara con il mondo e con il tempo è bene che si dedichi ad altre razze che possiedono una psiche un po’ meno spessa. Perché, come non finiva mai di sottolineare il compianto Massimo Scheggi, “la buona resa venatoria del bracco italiano, dipende dalla giusta considerazione del suo carattere”; e ancora, ”il tempo e il vicendevole amore creano l’intesa perfetta”(Anna Maria Matteuzzi)
Bracco italiano e “trialerismo”
Ormai da diversi anni si parla ( e spesso si abusa) di trialer come concetto comune a quasi tutte le razze da ferma, in primis quelle inglesi, ma un bracco italiano può identificarsi tale e mantenere sempre la propria espressione e caratteristica di bracco italiano? Sicuramente sì, perché già altri nomi autorevoli e allevatori storici del Bracco italiano l’avevano definito così; il bracco italiano è un trialer in quanto è un cane sempre in grado di avere fondo ed esplorare ampie porzioni di terreno, essendo dotato di gran trotto e piccolo galoppo avanzando con la sua placida maestosità.
Si parla sempre di soggetti che esplorano l’area e fanno dipendere la presa di terreno dal naso, viceversa, si tratta solo di azioni che nascono in risposta a forzature di addestramento, allora si perde l’essenzialità e la funzionalità del bracco, in questo caso la velocità e la presa di terreno sono solo lo sterile tentativo di copiare l’andatura degli inglesi. Invece, il nostro bracco, asciutto e muscoloso mostrando grande avidità e resistenza fisica che non si esauriranno dopo poche ore dallo sgancio, avrà questa caratteristica fondamentale cioè andrà dove lo porterà il naso ed effettuerà una cerca ragionata dove la prestazione atletica, pur presente, risulta in secondo piano, dimostrandosi capace di avere fondo quando sarà necessario.
Ritengo che questo sia un concetto trasversale e comune a tutte le razze da caccia perché legato al loro rendimento ai fini venatori. Viceversa quando si parla di “trialerismo esasperato”, anche questo comune a molte razze e da cui purtroppo anche molti bracchi italiani non sono esenti, ci si riferisce a quell’atteggiamento del cane che pensa solo a correre e ad allungare sul terreno. Tale aspetto spesso coincide con la mania di molti allevatori a caccia di titoli nelle gare di barrage soprattutto, di selezionare soggetti con atteggiamenti esasperati che corrono con un trotto sì serrato ma meccanico, nervoso e robotizzato, e prendono terreno senza un perché ma solo per correre e basta; questi saranno sicuramente ottimi soggetti da gara ma ho i miei forti dubbi che a caccia servano a qualcosa.
Il rischio in questo modo è che lo stile esasperato diventi più importante della funzionalità del soggetto e che invece di essere stigmatizzata, la prestazione ad alta velocità ed eseguita a grande distanza, ma fine a sé stessa, divenga sinonimo di perfetto stile dimenticando quell’aspetto fondamentale che si può racchiudere nel trinomio ragionamento-reperimento-collegamento che ha fatto sì che il bracco italiano divenisse il cane da caccia per eccellenza da quando ancora si usavano le reti e ancor più da quando si iniziò ad usare l’archibugio fino ai giorni nostri, avendo innata la capacità di scovare il selvatico e di farlo incarnierare al proprio cacciatore.
Movimento della coda e della tasta durante la cerca
Durante la fase della cerca fa piacere osservare quei cani che portando la testa alta in assenza di emanazione, che la spostino leggermente avanti e non la tengano fissata in quella posizione che potremo definire del “cobra pronto a colpire” che, non solo secondo me, denota la forte impronta di metodi coercitivi da parte del proprietario con conseguente robotizzazione del soggetto che perde così la sua naturalezza. All’arrivo di molecole odorose è bello osservare la canna al vento nell’intento di captare e analizzare l’effluvio, con lo scopo di snocciolare e palesare i segreti in esso nascosti, il tutto avviene nella totale morbidezza e fluidità. Alcuni dei soggetti che ho avuto cercavano le molecole così in alto nell’aria da ergersi sulle zampe posteriori rimanendo per diversi secondi in posizione eretta, sembravano degli uomini goffi ma molto attenti.
Il movimento della coda è davvero molto importante perché mostrando un ritmico ondeggiare senza strafare in mulinelli osceni, sarà un diapason che detterà il ritmo del trotto e del galoppo. È proprio in questa specie che la coda rappresenta un trait d’union rafforzato con il conduttore, perché attraverso il movimento comunica gli stati d’animo dell’ausiliare, calma quando oscilla normalmente, attenzione quando l’oscillazione accelera alla prima percezione delle molecole odorose, fino ad arrivare all’immobilità in presenza del selvatico, ma sempre in posizione orizzontale più o meno bassa. È giudizio di molti giudici e lo condivido che il corretto movimento di coda è aspetto imprescindibile dei continentali e del Bracco Italiano in primis.
Può capitare che alcuni bracchi in ferma continuino nell’oscillazione del moncherino, è comune intendere che se tale atteggiamento persiste su selvaggina immessa, denota intelligenza del cane, discorso diverso invece se viene perpetrato su selvaggina naturale. Ricordo il mio primo Bracco, Zeiro della Croccia, che pur essendo un gran fermatore su tutti i selvatici, si rifiutava di cercare e fermare la selvaggina appena immessa su cui, una volta individuata, andava educatamente ad orinare. Ma ho avuti anche soggetti che pur in ferma continuavano a muovere la coda. A parte l’aspetto estetico del movimento che proprio infastidisce, sono convinto che il movimento possa essere dettato o da scarse doti olfattive o da scarse doti intellettive. Non vi è soluzioni per entrambe, però, con l’esperienza, un soggetto con poco naso ma con un buon quoziente, potrebbe eliminare il difetto.
Nessuna alchimia o segreto di razza, quindi, un bracco italiano degno di questo nome dovrà cercare, muoversi e trovare la selvaggina nel modo in cui ci si aspetta lo faccia un bracco. In modo ragionato, fluido, con stile ma sempre concentrato sul compiacimento del proprio compagno di caccia a due gambe con cui instaurerà sempre un grande rapporto di fiducia che dovrà essere ricambiato, solo così il bracco svelerà i segreti della natura e della fauna selvatica che insidia.
Guidata, ferma, recupero e riporto
L’ars venandi con il bracco italiano, assume per me una connotazione diversa, riassumendo uno spessore che spesso si tende a perdere utilizzando altre razze. Si tratta di sicuro di un modo soggettivo di vivere la passione venatoria, ma tant’è, non tutti possiamo essere inglesisti, né tutti possiamo essere braccofili. Ognuno dovrebbe scegliere i propri cani in base al proprio modo di cacciare e di vivere la caccia. Si è sempre alla ricerca dell’ausiliare migliore e perfetto che sappia interpretare al meglio il nostro animus venandi e che di conseguenza ci regali le giuste soddisfazioni. Scovare i selvatici che più amiamo insidiare è solo un aspetto tra i tanti che deve possedere l’ausiliare in questione, perché se li scopre per conto suo e per suo piacere non penso che il vero cacciatore, sentendosi tagliato fuori dall’azione di caccia, possa ritenersi alla fine soddisfatto del proprio ausiliare. Oggi ritengo che chi possiede un continentale italiano, spinone o bracco, di tutto possa lamentarsi tranne del fatto di non avere nel proprio cane un valido compagno di caccia che lo coinvolga in tutti i momenti dell’azione venatoria.
E questo non perché il bracco italiano sia un ausiliare che manca di fondo o non si allontana dal padrone, ma semplicemente per il fatto che rimane un ausiliare fortemente collegato al cacciatore. E vi assicuro che questo suo modo di cacciare non solo è molto redditizio in termini di carniere ma anche molto soddisfacente per il cacciatore. Per carità, io rimango sempre affascinato guardando ausiliari di altri cacciatori, che spaziano e coprono estensioni di terreno veramente grandi. Li osservo mentre volano a centinaia di metri di distanza tra un appezzamento e l’altro, tra una costa e l’altra. Purtroppo, però, non è una modalità venatoria che mi soddisfa, mi piace sempre rimanere il capo branco durante l’azione di caccia, preferisco il mio bracco che dopo aver allungato centocinquanta metri, rientra a controllare verso quale direzione io stia proseguendo.
La morbidezza
“Morbidezza e rotondità”, inteso come un continuo e dolce fluire, senza scatti e repentini cambi, in questo racchiuderei il movimento del bracco italiano sia in fase di galoppo che di trotto. Durante la cerca i movimenti saranno distinti dalla naturale morbidezza ed elasticità che sono proprie del bracco italiano e che utilizzerà sempre anche semplicemente per saltare un ostacolo sul terreno. Non mi riferisco, quindi, solo alle forme rotonde, gentili e aggraziate, ma ad un vero e proprio movimento caratterizzante. Atteggiamento, questo, che deve sempre essere presente nell’azione del bracco ma che diviene imprescindibile in particolari momenti. Durante la presa di punto, ad esempio, rappresenta una caratteristica comune a tutti i continentali, ma anche al setter. Nella fase dell’andatura, invece, la morbidezza e rotondità dei movimenti diventano, in questo caso, veramente una peculiarità. Un movimento armonioso e plastico che caratterizza tutta la fase della cerca, arrivando a caratterizzare tutti i momenti che precedono la ferma o che ne seguono se il selvatico si è sottratto.
Qualcuno si chiede se per caso tale caratteristica sia da valutare come essenziale o obbligatoria sempre al momento della ferma. La risposta è negativa, perché potrebbe capitare che il cane si trovi a ridosso della selvaggina e quindi debba fermare di scatto, non potrebbe farlo con morbidezza altrimenti rischierebbe lo sfrullo. Quando mi sono riavvicinato al bracco negli ultimi anni, osservando alcuni soggetti impegnati nelle prove ufficiali, sono spesso, molto spesso, rimasto sconcertato nell’osservare la loro andatura contraddistinta da un trotto secco, con movimenti meccanici. Ad osservarli sembrava di vedere una registrazione portata avanti in modalità fast. Da profano lì non ho visto nulla che mi facesse pensare al bracco italiano mentre giudici, conduttori e allevatori sembravano piacevolmente colpiti e compiaciuti del lavoro fatto, contenti loro! Ho così avuto timore di riprendere un bracco italiano, timore di trovarmi tra le mani soggetti che per me sono snaturati e la cui andatura proprio non sarei riuscito a sopportare.
Fortunatamente il soggetto che ho attualmente per le mani mi soddisfa, rientrando il suo stile nella mia idea di caccia con un bracco italiano, pur con i suoi eccessi, impetuosità e la sua testardaggine peccati veniali legati alla giovane età e sicuramente al mio atteggiamento naif in fase di addestramento.
La filata e la guidata
Durante la fase di cerca, dopo aver alternato galoppo a trotto spinto o stilato, una volta entrato in zona di effluvio, il bracco italiano rallenterà al passo e sempre più lentamente mettendo un passo dopo l’altro, delicatamente, come per timore di far rumore. Captata l’emanazione olfattiva con l’azione della filata il nostro bracco, sviscererà la molecola odorosa cercando di risalire alla fonte. Quest’ultima azione prevede un atteggiamento estremamente cauto dell’ausiliare, che a dispetto della mole e della stazza si muoverà con estrema delicatezza per non far rumore, per lasciarci godere il momento, per darci il tempo di prepararci a quell’ultimo suggello che sarà la ferma, preludio della partenza del selvatico. È questo un aspetto che ho riscontrato anche in altre razze come il breton, solo che per queste di taglia minore, non fa impressione che si muovano senza far rumore, mentre per un cane di stazza come il bracco italiano la cosa è sicuramente molto più caratteristica e di grande impatto.
Con questo atteggiamento con il collo proteso inizia la filata verso la fonte dell’emanazione odorosa fino a irrigidirsi in ferma. Solo in casi eccezionali la ferma avverrà di scatto, quando il cane capiterà nell’immediate vicinanze del selvatico, come accennato in precedenza. Adesso se il selvatico si sposta e inizia ad allontanarsi, il bracco inizierà quella fase che è detta della guidata. Si manterrà a prudente distanza, dominando sull’emanazione e avanzando come nella filata, in modo cauto schivando rami secchi e muovendosi leggero sulle foglie scricchiolanti. Ma ho avuto soggetti che mostravano atteggiamenti anche un po’ più nevrili di quanto descritto, nel senso che dopo aver percepito l’usta e aver avvicinato il selvatico con atteggiamento cauto, rompevano poi l’indugio allargando l’azione e andandolo a bloccare in ferma escludendogli ogni via di fuga. Il bracco in guidata ondeggia nel vento, ha movenze feline, sembra collegato con un filo invisibile al selvatico che quasi sicuramente è nelle vicinanze.
Spesso, quando alcuni cacciatori delle mie parti mi incontravano a quaglie, osservando queste movenze del mio bracco e con quale precisione e sicurezza andasse poi a fermare trovando il selvatico, mettevano in giro la voce che avessi utilizzato quaglie di allevamento, ma poverini non sapevano che, come detto in precedenza, il mio bracco non fermava quaglie di gabbia ma vi orinava sopra e che soprattutto non avevo la disponibilità né il tempo per acquistare tutte quelle quaglie ogni sabato e domenica da settembre fino a metà novembre.
Ricordo una giornata molto uggiosa di fine ottobre, quando tra la stoppia riarsa dal sole di Sicilia, inizia ormai a nascere una coltre verde e rigogliosa frutto delle tante giornate di umidità e di qualche pioggerella. Mi trovavo su un terreno molto ampio di diversi ettari che degradava dolcemente verso valle delimitato da un canale per lo scolo delle acque piovane, proseguendo dall’altra parte verso un folto palmeto appena piantumato. Su quello stacco di terra avevo incontrato altri cacciatori di mattina ma avevo visto che erano passati senza trovare nulla; decisi ugualmente di batterlo per provare a vedere se avessero per caso mancato qualche quaglia che sapevo esserci lungo il perimetro dove l’erba era più alta e secca, quindi meno umida. Il bracco avanza al galoppo andando ad esplorare il lungo e largo l’intero appezzamento, ma ecco che sulla parte alta rallenta al trotto e inizia a interrogare l’aria, segue l’emanazione nel vento, fila dritto, rallenta gradualmente, va in ferma. Mi appresto a servirlo. Rompe la ferma e inizia guidare avviando un estenuante inseguimento guidato per alcune decine di metri fino ad arrivare a quel taglio naturale rappresentato dal canale nella parte bassa, lì il bracco andò in ferma solidissima senza più muoversi. Partirono a raggiera all’incirca una quindicina di quaglie e riuscì a prelevarne due, mentre le altre trovavano rifugio nel palmeto.
Il cucciolone di bracco italiano che possiedo al momento è invece più irruento rispetto ai miei precedenti, dotato di buon naso e di chiare doti celebrali, è ancora guidato da una fortissima passione e istinto predatorio che spesso lo portano a voler strafare sul selvatico per vederlo con gli occhi. E le sue qualità di spirito si vedono già da come affronta il terreno, qualsiasi terreno di pianura, sporco o montano, senza mai risparmiarsi sempre al massimo delle sue capacità fisiche, fino allo sfinimento. Inizialmente mi sono mostrato titubante sulle sue qualità, perché era soggetto restio a fermare, mi sono così convinto che avesse problemi di olfattazione o comunque un naso non proprio di livello, ma poi mi sono accorto che il cane riusciva sempre a scovare la selvaggina, anche dove erano già passati altri cacciatori con altri cani più esperienti e questo mi ha fatto molto riflettere. Ho continuato a dargli fiducia finchè non sono arrivate le prime ferme e gliene darò ancora in attesa che maturi e passi il momento della foga, secondo me è un soggetto che merita attenzione. Fisicamente ha una bella struttura molto atletica, muscoloso non troppo compatto. Zampe robuste e forti arti, molto espressivo in viso, carattere gioviale anche se non incline alla confidenza erga omnes. Ha un’andatura che è molto più incline al galoppo che al trotto probabilmente legata al fatto che non supera i 30 chili di peso, ma con atteggiamento e fluidità da bracco italiano e questo è ciò che per me conta.
Il riporto (e il recupero)
Un bracco italiano che non riporta è un assurdo, in quanto per antonomasia ci si riferisce a questa razza come quella in cui è naturalmente radicata questa dote. Almeno su questo aspetto tutti sembrano concordare. Ma allora perché può succedere che un bracco non riporti? La causa di questa defaillance l’andrei a ricercare nel padrone, che ha forse rimproverato il cucciolo che riportava qualcosa. A dire il vero quando decisi di orientarmi verso questa razza, lo feci sicuramente perché mi piaceva ed incuriosiva, rivestendo questa l’immagine del cane da caccia italiano per eccellenza, mal che sarebbe andata, pensai, lo posso sempre sfruttare per il recupero e riporto, doti che il pointer che avevo allora non aveva assolutamente. Immaginate il mio disappunto quando la prima quaglia abbattuta venne subito trovata dal bracco e repentinamente ingoiata. Così capitò per i beccaccini e le beccacce. Ero sconcertato.
Penso che ogni cacciatore sia geloso ed orgoglioso della propria preda e ci tenga che non venga troppo sciupata, così, di fronte a questa situazione, la reazione non sempre fu proporzionata. Il risultato ottenuto fu che il cane prendeva il capo abbattuto e scappava a rifugiarsi in qualche anfratto per ingollare il tutto. Confrontatomi con l’allevatore mi consigliò di non mostrarmi furioso e di mantenere la calma senza alzare la voce e dopo che il cane avesse ingoiato la preda, di infilargli in bocca, fino in gola, un pugno di terra. Ebbene dopo aver messo in pratica questa tecnica per non più di tre volte, riuscì a ritrovare uno dei più forti recuperatori e riportatori che abbia mai avuto. Non c’era selvatico disalato o ferito che avesse scampo, veniva repentinamente recuperato e riportato ancora vivo, dalle quaglie alle coturnici dalle beccacce alle lepri, ai conigli, ai colombacci (perché a volte mi faceva compagnia nell’appostamento temporaneo aspettando di recuperare qualche capo) tutti riportati con fare gioioso e festante proprio come deve fare un bracco italiano che si rispetti.
Oggi, con un po’ d’esperienza in più, inizio il cane al riporto già da cucciolo con una pallina, un giocattolo, un pezzo di legno e mai fino a farlo stancare ma solo per farlo giocare qualche minuto. Il riporto viene sempre premiato con carezze, parole amorevoli, rabbuffi e un tono della voce che trasmette emozione e contentezza per il momento condiviso.
Successivamente a caccia, faccio in modo che si abitui al riporto di animali grossi, un colombaccio, un coniglio, per poi passare gradualmente a quelli di mole minore, quaglia, beccaccino e beccaccia. Alcuni soggetti saranno riportatori e recuperatori naturali, altri avranno queste qualità intrinseche e bisogna pian piano tirarle fuori.
Perché scegliere un bracco italiano
La risposta a questa domanda è semplice ma, per altri aspetti, anche molto complessa. Pertanto andiamo per gradi. Innanzitutto diciamo che se un cacciatore è appassionato di questa razza e del suo stile ed ha una mentalità da braccofilo, prima o poi finirà per prendere un bracco italiano come compagno di caccia. La scelta di questa razza non solo deve nascere dallo sforzo culturale e dall’amor patrio verso un prodotto italianissimo e comunque in grado di dare ottime soddisfazioni a chi lo possiede (come accennavo all’inizio), ma deve essere dettato anche da un approccio diverso al mondo della caccia e al modo in cui si gestisce l’azione stessa. Per mia esperienza personale, anche se ho cacciato con diversi tipi di ausiliari sia continentali che inglesi, posso affermare che lo stile del bracco italiano è quello che più si addice al mio spirito venatorio. Non ho la presunzione di sostenere che si tratta del miglior stile del mondo e che sia superiore ad altre razze, ma è quello che più mi rappresenta e affascina.
Forse perché mi ritengo un cacciatore che ama cacciare diversi tipi di selvaggina, almeno quelle che il territorio offre, su diversi tipi di terreno. Ho quindi bisogno di avere un ausiliare in grado di adattarsi ai diversi selvatici e ai diversi ambienti, perché mi piace cacciare la quaglia nelle stoppie ma anche in collina tra lo sporco, mi piace l’ausiliare che sappia trovare e fermare anche il coniglio tra i cespugli, così come il beccaccino nelle marcite, o le folaghe e le anatre tra i canneti; a novembre si dovrà adattare allo sporco cespugliato delle mie cave per cercare le beccacce che potrebbero trovarsi però nei boschi in collina in ambienti molto aperti.
Potrei anche decidere di andare in riserva a cacciare fagiani di gabbia, perché no, restii a mettersi in ala e pretendo che il mio ausiliare si debba adattare a tutte queste situazioni. Ho necessità di avere un cane che non si “vergogni” all’occorrenza di mettere il naso in terra per individuare meglio il selvatico, che mi faccia capire, una volta in ferma, in base alla posizione del corpo e della testa a che distanza si trova la selvaggina. Sono sicuro che quanto detto farà arricciare il naso a molti puristi contrari alla definizione di bracco come cane versatile, comprendo il loro punto di vista perché non deve passare l’idea che essendo un cane intelligente e collegato allora vuol dire che debba sacrificare il suo stile su selvatici o terreni non consoni.
Però noi moderni paghiamo lo scotto di poterci muovere ampiamente sul territorio avendo mezzi di comunicazione, strade e automobili che in poche ore ci portano dalla marcita alla montagna, dalla stoppia al bosco, per cui se amo solo un tipo di caccia posso decidere di specializzare il mio ausiliare solo su quella, ma se amo la caccia in generale allora il mio ausiliare mi dovrà assecondare. Secondo il mio modesto punto di vista, il bracco italiano da caccia deve essere in grado di scovare nel miglior modo tutti i tipi di selvatici, anche da pelo e questo non “rovinerà” le sue doti di fermatore, ma al contrario lo renderà cacciatore a tutto tondo. Ma riprendo nuovamente il pensiero di Edmondo Amaldi, secondo cui il bracco è un “Microtelesfron” cioè in grado di captare emanazioni a grandi distanze come gli inglesi (Telesfron) ma anche di seguire un leggero effluvio sul terreno come i cani da seguita (Microfon). Ecco, è questo in breve sintesi il motivo per cui oggi ancora più di ieri, opto per il bracco italiano, un ausiliare intelligente, dotato di ottimo collegamento, senso del selvatico e fortissime capacità di recupero e riporto, aspetto quest’ultimo troppo spesso sottovalutato e a cui bisogna dare molta importanza invece perché essenziale in un cane da caccia.
Come scegliere il giusto soggetto di bracco italiano
Per mia valutazione da cacciatore ritengo che non avendo esigenze di gara e di esposizione, poco importa la particolarità del manto (bianco arancio, bianco melato, bianco marrone e così via) o se il cane sta nel quadrato o nel rettangolo, o se l’attaccatura dell’orecchio è più alta o più bassa, o ancora se la canna nasale non è perfettamente montonina e il naso a becco di flauto, purchè si rimanga all’interno dello standard si intende. Ritengo che gli aspetti essenziali da tenere in conto nella scelta di un bracco debbano essere relativi alla struttura fisica, asciutta, armoniosa ed efficiente e che discenda da cani da caccia o che abbiano comunque nel dna il gene della caccia e questo lo si può valutare solo osservando i genitori e da dove discendono essi stessi o affidandosi comunque ad allevatori seri con ampia e comprovata esperienza nel settore dell’allevamento del bracco italiano da caccia, ed oggi in Italia ce ne sono diversi. Non serve guardare foto di cani in ferma, torno a ripetere che il genere di cui stiamo parlando è quello dei cani da ferma ed è quindi logico che fermino, ma osserviamo invece la fisicità dei genitori, la capacità di cerca, l’andatura e il modo in cui si affronta il terreno per risalire al selvatico, è questo l’aspetto chiave da valutare. Per il resto, sul sito della S.A.B.I. (società amatori del bracco italiano) esiste un dettagliato elenco di tutti gli allevatori storici e più recenti presenti in Italia e all’estero con relativi contatti e vi assicuro che sono tutti molto gentili e disponibilissimi a fornire dettagli, video e immagini dei loro riproduttori. Vengono organizzati, inoltre, raduni di braccofili e gare pratiche le cui date sono sempre consultabili sul sito della S.A.B.I., in questo modo sarà possibile farsi un’idea concreta del mondo del Bracco Italiano oggi.
A che punto è la razza oggi
Dalle immagini di bracchi che si riesce a reperire sulla rete sembra che l’odierna produzione nazionale sia in buona salute. I soggetti ritratti indicano di buon grado la tendenza attuale dal punto di vista morfologico e da alcuni scatti se ne può evincere positivamente il portamento venatorio e le caratteristiche salienti, almeno quelle fisiche. Alcuni presentano a mio avviso delle proporzioni perfette e sono morfologicamente molto vicini a quei bracchi asciutti e leggeri ritratti nelle foto degli anni ’50-’60. Altri presentano ancora, purtroppo, dei tratti ancora pesanti con eccessivo linfatismo.
Oggi come ieri il problema della razza sta più nella quantità dei soggetti validi che si producono e che sono a disposizione del mondo venatorio. È bene ricordare che quando parlo di soggetti venatoriamente validi non mi riferisco solo ai campioni prodotti, in quanto questi possono essere delle unicità nel senso che non è detto riescano a replicare nelle future proli le proprie qualità; mi riferisco, invece, anche a tutti quei soggetti che vivono nell’anonimato la quotidianità della casa di semplici cacciatori e sono “eroi” positivi delle loro soddisfacenti avventure venatorie. La ricerca del “Bracco Buono” può partire anche dal basso. Si potrebbe scrivere ancora tanto su questa splendida razza italiana ma voglio concludere dicendo che è giusto e auspicabile che il Bracco Italiano da caccia, seguendo la retta via intrapresa da qualche anno da alcuni allevatori, riprenda il posto e il ruolo che gli appartengono all’interno del mondo della cinofilia venatoria italiana con la viva speranza che non si ripetano gli errori del passato.
Bellissima disamina del bracco ,
Direi contemporaneo.