La storia del bracco italiano è antica e per esporla occorre ripercorrere le epoche, addentrandosi passo dopo passo nei secoli, partendo dal lontano medioevo
In merito alla storia del bracco italiano possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che si tratti di una Razza antichissima, citata già da Plinio Il Vecchio nella sua “Naturalis Historia” (77-78 d.C).
Si è scritto e ne siamo pienamente convinti che il bracco è il capostipite del cane da ferma e che molte razze degli altri paesi derivino da esso. Il bracco veniva usato, largamente e degnamente per la caccia, dalle antiche casate regnanti che se lo scambiavano e regalavano per le innate qualità nel servizio venatorio.
La nascita del cane da ferma come cane da rete
Nel medioevo per la caccia alla selvaggina alata si impiegavano i cani da rete. Erano questi i progenitori dei cani da ferma che, avvertita la presenza della selvaggina in virtù del loro sensibile olfatto, la segnalavano con eloquenti atteggiamenti. Gli addetti alla caccia posizionavano allora una rete davanti al cane e, tenendone un lembo ben alzato, la trascinavano verso di lui fino a coprire l’antistante selvaggina che cercava scampo nel mimetismo e nell’immobilità.
Questa forma di caccia si svolgeva quasi certamente soprattutto di notte, quando la selvaggina è più restia a volare, cosi come ben sanno anche oggi i bracconieri. Sta di fatto che di notte i cani fermano meglio, sia perché la funzione olfattiva è facilitata dall’alta umidità notturna, sia perché nel buio i cani non si distraggono e concentrano tutta la loro attenzione nella percezione olfattiva (tant’è vero che per insegnare ad un cane poco propenso a fermare, lo si porta in campagna di notte). Comunque è molto probabile che la ferma sia nata come comportamento notturno.
Da cane da rete a cane da ferma, perché?
La caccia con la rete doveva durare fino al 1.600. Ma come, quando e perché la dizione “cane da rete” si è trasforma ta in “cane da ferma”? In merito formulo un’ipotesi.
I cani da rete come vedremo di seguito – vennero esportati in Francia dove godevano di grande considerazione. Ettore Talé, in un suo libro del 1926 (il cane da caccia), sostiene che nella vecchia lingua francese” esisteva la dizione “chien da rets“, che letteralmente pare senza significato alcuno, ma che secondo Talé identificava i cani da rete.
Comunque, la somiglianza tra “da rete” (o da rets) e “d’arret” mi fa pensare che la seconda dizione derivi dalla corruzione fonetica della prima, da cui l’uso in francese di chien d’arret per indicare il cane fermatore, a differenza degli inglesi e degli spagnoli che li chiamano cani puntatori, cioé pointers e perro de punta.
Anche in Italia si usava “cane da punta”, ma prevalse l’espressione “cane da ferma” come diretta traduzione di “chien d’arret”. Abbiamo cioé esportato “cane da rete” per poi importare di ritorno “cane da ferma” come traduzione di chien d’arret.
La caccia con il falco
In alternativa alla caccia con la rete, nel medioevo e fino a tutto il 1.500 si praticava anche la caccia col falco, nella quale il cane aveva il compito di localizzare la selvaggina e di metterla in volo. Il falconiere, opportunamente appostato nei pressi del cane, liberava il falco che catturava l’uccello.
Però in questa pratica la ferma non era indispensabile ed era sufficiente che il cane non si allontanasse troppo e preannunciasse col suo comportamento il prossimo frullo della selvaggina: andava cioè benissimo anche la prestazione di quello che oggi chiamiamo “cane da cerca”.
Nel 1540 in Francia il potentissimo Duca Francesco di Guisa scriveva al suo alleato Connestabile di Montmorency:
“Affinché il vostro falco non fallisca pernice, vi invio per aiutarlo un giovane Bracco, donatomi dalla Regina (di Francia, cioè Caterina de Medici) e che proviene dall’Italia”
A proposito della caccia col falco, è particolarmente illuminante l’affresco di Ambrogio Lorenzetti del 1337 raffigurante “l’Allegoria del Buongoverno in città e in campagna” che si trova nel Palazzo Pubblico di Siena. Nell’affresco sono dipinti cavalieri col falco, accompagnati da cani con caratteristiche grosso modo rispondenti a quelle del nostro bracco italiano; sempre nello stesso affresco è visibile il bracco in ferma su di un uccello che potrebbe essere un francolino.
Il Bracco italiano nel Rinascimento
Il fatto di sostenere – com’è stato scritto – che il bracco rinascimentale avesse andatura veloce per reggere il passo del cavallo del falconiere suona come una forzata rivendicazione di un passato di prestanza atletica del nostro bracco che contrasta però con la logica.
Il bracco rinascimentale era infatti pur sempre il cane prevalentemente impiegato nella caccia notturna, durante la quale un’andatura veloce – e di conseguenza una cerca spaziosa –sarebbe stata controproducente e del tutto improponibile. A questo riguardo, invece, trovo condivisibile la tesi di G.B. Benasso che fa risalire al cane da rete la cerca ristretta che ha caratterizzato il Bracco italiano sino ad un recente passato e che in parte ancora affligge la razza.
Ancora dalla Francia ci giunge il manuale “La chasse royale” scritto nel 1570 dal re Carlo IX, secondo il quale cent’anni prima – cioè nel 1470 – un greffier di re Luigi XI aveva portato a corte dall’Italia una bracca bianca con macchie rossicce di straordinaria bravura nella caccia, che re Luigi aveva poi accoppiato col miglior maschio della sua muta di segugi bianchi.
Da Roma, invece, Fabrizio Colonna così scriveva nel 1510 al Marchese Francesco Gonzaga:
“….sono circa tre anni che Vostra Eccellenza mi mandò uno bianco et grande della razza sua, del quale mai in terra di Roma di migliore et di più gentile, che in mille caccie in presenza dei Signori Cardinali et altri Signori, fece tali prove che si conosceva molto bene non poter essere di altra razza...”
Non v’è dubbio che le caccie alla presenza di Cardinali ed altri Signori era praticata col falco. A mio avviso però la caccia col falco, retaggio solo dei nobili, non ebbe un’influenza determinante nello sviluppo della razza, proprio perché non esaltava la principale caratteristica dei bracchi, cioè la ferma.
Vediamo invece la testimonianza che nel 1517-1518 ci viene da Monte Albano e precisamente da certe memorie degli sbirri, custodi dell’ordine e severi repressori del bracconaggio, incaricati di guardare l’immensa Bandita Ducale, in cui si narra:
“nei chiari di luna i Bracchi erano di gran giovamento e che d’un subito, anche da lontano quaranta braccia, fiutavano e davano l’indizio al francolino che si prendeva con le mani, la rete a sacco od il bastone”.
Ancora da Monte Albano così scriveva il Priore di San Giusto in data 14 agosto 1522 al suo diletto amico Priore presso Firenze:
“Sono malgrado le proibizioni in penitenza e pentimento sincero che l’altra notte di nuovo con quei de’ Medici di notte in plenilunio fui tentato senza resistere di andare a pigliare i francolini, e vi assicuro che ne avreste avuto gran divertimento, vedere i cani indicare a non vista l’animale, tanto che con Drea di Luccio, che voi conoscete bene, se ne presero in un’ora forse più di trenta col bastone e con le mani. Io mai avrei creduto che questi cani fossero di così grande bravura; ve ne era poi uno scuro e bianco che era un vero prodigio, lui solo ce ne scovò più di venti”.
Un’ulteriore conferma quindi che, prima dell’avvento del fucile, l’impiego specialistico del bracco era soprattutto nella caccia notturna, in questo caso da parte di un priore bracconiere.
Esportazione del bracco italiano in Francia
A dimostrazione di quanto fossero apprezzate in quell’epoca le doti peculiari dei nostri bracchi, in merito alla storia del bracco italianoè illuminante la lettura di quel che la Regina di Francia, Caterina De Medici, scriveva a suo padre il Duca Lorenzo de’ Medici nell’agosto 1537, allorché chiede che:
“insieme alla seta rossa delle Monache di Sant’Orsola,” le invii “quattro giumente ed una bella e numerosa compagnia di quei Bracchi, che tanta bravura dimostrano, che quelli della Corte del Re (Enrico 2° di Valois) non valgono più nulla e sono tutti imbastarditi;” vuole che “facciano buon gioco d’indizio, ed almeno ne desidererebbe due o tre tutti bianchi, per contrapporli alla muta dei levrieri bianchi, favoriti dal Re, che molto gradirebbe la cosa;” raccomanda che “siano gagliardi e già bene di bravura alla caccia, che da inseguimento se ne hanno anche troppi, con l’ultimo dono pervenuto dall’Inghilterra.”
Al che il Granduca rispondeva alla figlia d’averle inviato cinque giumente di gran valore, delle quali una specialmente bellissima, avuta da Napoli, e la seta rossa e verde col giglio di Francia e quello di Fiorenza, e le armi del Re, ma che non poteva inviarle che undici cani di pura razza Bracca macchiati, ed uno soltanto perfettamente bianco, che in quello Stato era rarissimo.
Qualche tempo dopo però, nel medesimo anno, una nuova lettera del Granduca informava la Regina sua figlia,
“che con grandissima difficoltà non aveva potuto inviarle prima i cani bianchi, malgrado l’allevamento di Poggio a Caiano avesse dato prole numerosa, ma oggi era lieto di spedirne quattro superbi, candidi come neve, dei quali ne farà omaggio al suo signore e Re, cacciando essi meravigliosamente all’indizio, senza bisogno d’inseguire, o col falco o senza”.
Quindi i bracchi presenti alla Corte di Francia – bianchi o pezzati che fossero – venivano dall’Italia, mentre i cani del Re provenienti dall’Inghilterra erano segugi. La lettera di Caterina De Medici ci conferma anche l’avvenuto imbastardimento dei bracchi in Francia, così come riferirà Carlo IX nella già citato suo manuale: d’altro canto i re di Francia non praticavano la caccia notturna con la rete e potevano quindi permettersi cani non fermatori, purché dotati di buon naso.
Il motivo per i quali i bracchi bianchi erano i più pregiati è da ricercare nel fatto che quel mantello era la manifestazione di un gene recessivo; quindi i cani bianchi erano presumibilmente puri, perché l’immissione di sangue estraneo avrebbe determinato il manto pezzato (però in Francia anche i segugi del re erano bianchi e i nostri bracchi vennero incrociati proprio con loro!).
In effetti, i Bracchi tutti bianchi – ancorché rari – durarono fino alla fine del 1.800 quando scomparvero quelli allevati in Piemonte dalla famiglia Aschieri.
Il gene del mantello bianco, che diluisce il pigmento sino a farlo scomparire, è invece rimasto negli Spinoni, fra i quali i soggetti interamente bianchi sono ancora frequenti. Nel 1500 le caratteristiche estetiche del Bracco italiano erano ormai fissate, così come testimoniano descrizioni letterarie famose e citatissime, come per esempio il poema “La Caccia” di Erasmo da Valvasone del 1593, che ci hanno tramandato un quadro di caratteristiche morfologiche coerente con quelle dei nostri giorni.
Qui mi piace riportare quanto appare in un anonimo libretto con data probabilmente di poco successiva al 1580 dove si descrive il Bracco:
“un cane dalla testa imponente, con lunghe e morbide orecchie, che fiuta da lungi il selvaggiume e par si fermi estasiando, mentre il manto bianco e marrone riflette al sole setaceo pelo”.
L’evoluzione del Bracco a seguito dell’avvento delle armi da fuoco
Le modalità della caccia coi Bracchi dovevano poi evolversi con l’avvento dell’archibugio che, dapprima pesante e poco maneggevole, poteva essere usato solo per tirare a fermo e con l’ausilio di un cavalletto d’appoggio. Nel libretto di certo Domenico Farsetti, dal titolo “La Campagna”, stampato nel 1574, si legge che “quando i cani fermano, potete con certezza conoscere che l’animale è vicino; preparate il vostro schioppo, che a covo lo scorgerete e scegliete i vostri cani nel Bergamasco, dove sono i migliori Bracchi del mondo”.
Quindi si sparava a terra su selvaggina a covo. Fu solo agli inizi del 1600, con l’evoluzione dall’archibugio “a ruota” a quello “a martello”, che il fucile divenne più maneggevole tanto da trovare proficua utilizzazione nel tiro a volo, cosa che doveva portare un notevole mutamento nell’uso del cane da ferma.
Innanzitutto la caccia divenne esclusivamente diurna ed al cane si richiese ferma più solida di quanto non fosse richiesto nella caccia col falco; ma soprattutto divenne importante fissare nel cane doti olfattive che consentissero di localizzare la selvaggina ad una maggiore distanza rispetto a quanto avveniva nella caccia con la rete.
Il 1700, l’epoca d’oro del bracco italiano
Ci vorranno però ancora cent’anni prima di avere fucili dalla moderna concezione, che consentissero un’ampia diffusione di questo nuovo tipo di caccia, giungendo così al 1.700, secolo d’oro del Bracco italiano.
Nel ‘700 infatti non v’era casa signorile o cacciatore dell’alta Italia che non possedesse un Bracco di cui era sommamente orgoglioso e financo geloso, essendo motivo di rivalità la vantata superiorità, i meriti e la purezza dei soggetti, nonché la loro bellezza.
Il bracco piemontese e il bracco lombardo
Nel frattempo si erano creati due tipi: il bracco Piemontese ed il bracco Lombardo che si vuole fossero di manto bianco o bianco pezzato d’arancio i primi e bianco-marrone i secondi. Diversi furono i pareri sulla loro bontà che favorivano a volte gli uni o gli altri.
Un libercolo datato 1620 scritto dal mantovano Giacomo Giacomelli recita quanto segue: “Si conoscono due razze di Bracchi, quelli di monte detti Piemontesi, e quelli di piano detti Lombardi, ma poco differiscono fra loro, salvo che quei di monte sono assai più robusti e con un manto vivo e brillante, mentre i nostri sono più pigri, ma di migliore olfatto e non temono l’acqua”.
Altri pareri si potevano registrare da parte di vari autori, ma il consenso generale pareva essere la differenza del mantello e la maggior pesantezza e lentezza dei Bracchi Lombardi. Vero è però che le grandi pianure lombarde offrivano minor riparo alla selvaggina, da cui la necessità – secondo alcuni commentatori – di avere in quelle zone cani più guardinghi e quindi più lenti.
La maggior gagliardia dei Bracchi piemontesi era oggetto di un rapporto tratto dagli archivi di casa Savoia sui cani della Venaria reale datato 16 settembre 1737, in cui si legge: “I cani Bracchi sono tutti buoni, reggono lungamente la puntata, ma corrono troppo d’impeto nella cerca, malgrado la rigorosa infrenatura cui sono sottoposti dai nostri cacciatori; però molto si è potuto ottenere in questi ultimi tempi, e siamo certi di ridurli a giusto dovere”.
L’infrenatura per controllare il bracco
Questa esigenza di imbrigliare l’azione del bracco proviene da una visione utilitaristica della caccia, intesa non come uno sport, bensì come mezzo per riempire la padella: è fuor di dubbio infatti che un cane dalla cerca impetuosa ed estesa fosse più soggetto a sfrulli ed a sciupare occasioni per una fucilata utile. In pratica, “l’infrenatura” citata nei documenti degli archivi dei Savoia precorreva la tanto vituperata braga e probabilmente consisteva in un ceppo di legno penzolante dal collare e che sbatteva sugli arti anteriori quando il cane correva troppo forte. Questo tipo d’infrenatura era ancora in uso fino a cinquant’anni fa.
Non tutti però ricorrevano alle infrenature per controllare i bracchi e vi fu anche chi otteneva lo stesso risultato con un “down” ante litteram. Leggiamo infatti quanto scrive nel 1741 il Marchese Spiriti a commento della ristampa del libro di Fracastoro “L’Alcon, sive de cura canum venaticorum”:
“Il cane da fermo generalmente pratico è un bracco da terreno, lungo, nato fatto dalla natura per puntare detti uccelli starne, quaglie, pernici, assai più che qualunque altro uccello selvatico. Questo nella sua più impetuosa carriera, udrà la voce del suo padrone, fermarassi in tronco, rivolgerassi indietro e starassi immobile fino a tanto che abbiane veduto il volto di quello, e ne abbia ricevuto i suoi ordini per via di leggerissimi segni ed allorché egli si trova così vicino alla sua preda, che l’ha quasi in bocca, starassi immobile a riguardarla ed acquattato sopra la sua pancia sino a tanto che giunga il suo padrone e da esso riceva le sue direzioni”
È plausibile che il trotto come andatura tipica del bracco italiano abbia avuto origine in quell’epoca, anche se solo cent’anni più tardi verrà riconosciuto come una caratteristica propria del Bracco italiano in alternativa al galoppo delle razze inglesi che nel frattempo si erano diffuse in Italia.Perché al di là delle diversità morfologiche, la differenza più significativa per il cacciatore era (e rimane) l’andatura di trotto con le conseguenti attitudini comportamentali e psichiche del Bracco italiano rispetto alle razze inglesi.
Il 1800 e la decadenza del bracco italiano
Verso la fine del 1.800 la nascente cinofilia ufficiale (il Kennel Club Italiano) stabilirà l’esistenza del Bracco italiano pesante e del Bracco italiano leggero, per poi riunificare qualche decennio più tardi la razza in un unico standard con limiti sufficientemente ampi da accogliere le due varietà.
Ma il 1.800 è stato il secolo della decadenza del Bracco italiano per una serie di cause concomitanti. La nobiltà terriera italiana, attratta dai salotti cittadini, aveva abbandonato le campagne ai fattori, lasciando a loro anche la cura dei Bracchi. Nel frattempo invece oltre Manica erano nate le razze inglesi da ferma, selezionate dalle grandi famiglie che conferirono a setter e pointer un’impronta moderna e sportiva.
Mentre gli inglesi sperimentavano d’imbastardire i loro cani da ferma col fox hound per renderli più veloci e per ampliare la loro cerca, i nostri cacciatori sottoponevano i Bracchi nostrani a “rigorosa infrenatura” perché “corrono troppo” e per contenere “l’impeto nella cerca”. Gli inglesi inventavano il “down” e l’addestramento dei loro cani da ferma; i nostri fattori preferivano i Bracchi più fiacchi che, per scarsa vitalità, non necessitavano di alcun dressaggio.
La nostra legislazione – secondo la quale la selvaggina era res nullius – trasformò la caccia da sport elitario ad esercizio di massa, con prevalenza di interessi utilitaristici ed alimentari. Ne seguì pertanto un depauperamento del patrimonio faunistico ed una rarefazione della selvaggina che trovò del tutto impreparato il Bracco italiano, dall’azione volutamente lenta e non sufficientemente spaziosa.
Ci fu quindi una vera e propria invasione dei cani inglesi che i nostri bracchi, resi ormai lenti e linfatici, non potevano arginare. Si giunse così agli inizi del 1.900 con i Bracchi italiani ridotti ad una razza non più venatoriamente competitiva.