I cani da ferma italiani sono diversi da quelli di razza inglese, morfologicamente e fisiologicamente, e pertanto non è possibile che l’addestramento del bracco italiano segua ugual metodo
Prima di parlare di addestramento del bracco italiano è bene sottolineare che, purtroppo, la cinofilia italiana ha copiato dall’Inghilterra e mi pare che nessun abbia preso a cuore lo studio delle razze italiane, esclusione fatta per Ferdinando Delor, passato, non so perché, nel dimenticatoio. Lo studio delle razze da ferma italiane è stato trascurato non tanto per quel che riguarda la morfologia ma soprattutto per la fisiologia.
Sistema nervoso, caratteristiche di lavoro e addestramento dei nostri cani sono conosciuti solo in minima parte dalla massa dei cinofili. Ne consegue che dal punto di vista del lavoro i nostri cani sono messi sullo stesso piano del setter e del pointer quando invece l’addestramento del bracco italiano e dello spinone deve avvenire in funzione del loro sistema nervoso, assecondando le loro normali inclinazioni.
Errate pretese sull’addestramento del bracco italiano
Si pretende che l’addestramento del bracco italiano e dello spinone avvenga con lo stesso sistema degli esteri, con gli stessi metodi dei cani inglesi e ci si fa meraviglia se la risposta ai vari stimoli d’addestramento è diversa da quelli inglesi.
L’addestratore è propenso, in questo caso, a bocciare il cane di razza nostrana solo perché nessuno gli ha mai spiegato la causa di questa diversa risposta agli stimoli, evidentemente, adatti per addestramento di specifiche razze. I cinofili ed i cinotecnici si sono abituati alla scuola inglese, mancando quella italiana; si sono abituati a misurare tutte le razze da ferma col medesimo metro: quello degli inglesi. Ecco pertanto che le gare, pubblica esibizione, pietra di paragone fra le varie razze, hanno permesso, anzi favorito l’alterazione del lavoro di certune razze canine portandole al livello delle inglesi, uniformandole alle inglesi.
Il danno arrecato dalle gare italiane
Le gare italiane, a parer mio, per certe razze sono state dannose perché hanno contribuito ad alterare il loro lavoro naturale, negando pertanto uno stile razziale proprio, caratteristica legata ad ogni tipo di razza, che dovrebbe essere multiforme in una gara italiana dove molteplici sono le razze partecipanti.
La cinologia inglese doveva essere per noi indirizzo verso uno studio più lato, doveva servirci come base e sprone per lo studio delle varie razze da ferma e non meta ultima da eguagliare. Va da sé che se uno scrive cose che i cinotecnici inglesi non hanno mai menzionato, quello passa per matto. La stessa cosa successe a Ferdinando Delor, che fu il pioniere della cinotecnia italiana ed il primo che si preoccupò di studiare le nostre razze da ferma con un metro proprio e non preso in prestito dagli stranieri.
Le dottrine inglesi arrivarono prima… ne siamo sicuri?
Col non voler scrutare più in là della cinologia inglese, siamo arrivati fino al 1965 prima di scoprire che i cani da ferma italiani non possono eseguire la classica “cerca incrociata” degli inglesi, tanto per fare un esempio. I russi inventarono la cosiddetta fecondazione artificiale negli animali domestici e per primi l’adottarono su larga scala. Ma la fecondazione artificiale fu scoperta fin dal 1600 da un italiano: Lazzaro Spallanzani.
Lo Spallanzani dimostrò, con una pubblicazione che passò quasi inosservata, la possibilità di ingravidare una cagna in calore senza bisogno dell’accoppiamento vero e proprio. Spallanzani dimostrò sperimentalmente che immettendo lo sperma di un cane nella vagina di una cagna essa rimane gravida e sfatò cosi le dicerie e le superstizioni allora ancora di dominio pubblico in merito al concepimento.
Gli inglesi inventarono il “down”, azione basilare per l’addestramento del cane da ferma: il primo passo del dressaggio. Il “down” fu accettato dai cinofili di tutto il mondo ed in ogni nazione prese un termine locale: “a terra” fu la sua traduzione italiana. Ma fin dal 1716 un cinofilo italiano esperto in addestramento del cane da ferma, Bartolomeo Alberti detto Solfanaro, così scriveva:
Avvertiamo che mentre si copre -colla rete- il cane già avvezzato, si fa insieme (minacciandolo con la bacchetta) coricare in terra e non muoversi, poiché così disciplinato se viene il caso che il cane colla quaglia da lui fermata sia molto lontano dal cacciatore, nulla di meno il cane non si muove ma aspetta un’ora e più ».
Il «terra» è stato pertanto descritto da un italiano fin dai primi del XVIII secolo, e si dice che questa descrizione del « a terra » sia la prima, o per meglio dire, la più antica menzione del «down»: nihil novo sub sole…. Sia il “terra”, sia la fecondazione artificiale sono stati inventati da italiani, adottati da stranieri e riconosciuti anche da noi, in un secondo tempo, di utilità.
Cosa diceva Ettore Talè
Che il “terra”, pur essendo scoperta nazionale, sia più adatto per i cani inglesi che per i cani da ferma di razza italiana l’aveva già capito Ettore Talè nel 1926 quando scriveva intelligentemente:
«Passiamo ora all’esercizio “a terra” il quale è certo il più importante, soprattutto per le razze inglesi, mentre io lo ritengo necessario per le razze continentali, che sono più docili. Però, volendo, si potrà insegnare anche ai soggetti di queste ultime, e sarà bene fare eseguire il “terra” tenendo alta la testa e ciò perché dovendo riportare, possano vedere dove la selvaggina cade. Per i soggetti di razza inglese, al contrario, occorrerà che la testa sia proprio posata di piatto sulle zampe anteriori, perché diversamente, qualora tenessero la testa alta, essi avrebbero una certa tendenza ad alzarsi ed ad andarsene senza attendere il vostro comando».
L’esempio di Vimba delle Forre
Il bracco italiano è chiamato il “cane della ragione” perché non è impulsivo, non è nervoso, non è scattante, non ha riflessi rapidi: il nostro cane ha insomma un sistema nervoso particolare che lo distingue, o per meglio dire, lo stacca dai continentali esteri e, nettamente, dai cani inglesi in particolare.
Ad una razza galoppatrice insegnate il “terra” a distanza e dopo tante prove avete il piacere di vedere il cane scattare al “down” come se il colpo di fischio gli avesse troncato le gambe. Il bracco il “terra”, specie a distanza, lo fa solo dopo aver fatto qualche passo per essersi dondolato a dritta ed a manca. Vimba delle Forre, mio validissimo ausiliare su qualsiasi tipo di selvaggina e terreno, ha sempre rifiutato il “terra”.
Con Vimba ho avuto anche ottime soddisfazioni in gare classiche e di caccia pratica, ma al frullo e sparo essa rimane a guardare il selvatico, e riporta anche a comando ma senza effettuare il “terra” malgrado abbia provato a farglielo eseguire in vari modi.
Dal momento che lo scopo “immobilità al frullo e sparo” l’ho raggiunto ugualmente senza il “terra”, non insisto sull’esecuzione di questo esercizio per non intimorirla, per non crearle dei complessi, per non rompere quel bel affiatamento che ha con me.
Invettive ingiustificate
In una recente gara un professionista dell’addestramento finisce il turno su quaglie con una giovane bracca italiana, che viene eliminata. Io, fra il pubblico, ho osservato il bel lavoro di questo continentale italiano che ha dimostrato di essere in possesso di grandi doti sebbene squalificato, e vado incontro al dresseur per complimentarmi del suo allievo.
Purtroppo, come mi avvicino, odo una serie di invettive dirette ai nostri bracchi, a chi li alleva, e ad Amaldi in particolare che, evidentemente non capisce niente perché vuol bene a questa razza. Rimango male ma non controbatto Alle imprecazioni rivoltemi perché espresse in un momento di particolare nervosismo. Ingaggio invece una discussione con l’addestratore che mi controbatte vociferando inizialmente, calmandosi in un secondo tempo e condividendo il mio pensiero infine.
“II bracco italiano -diceva questo dresseur- è un cane inaddestrabile: quando credi che il suo dressage sia ultimato, quando pensi d’averlo in mano, sottomesso come una donna innamorata, ti accorgi poi in gara che il tuo lavoro è ancora allo statu quo e che le tue fatiche sono state mal spese. Col pointer invece è tutt’altra cosa: quando è dressato puoi andare tranquillamente in gara». Prima di dedicarsi all’addestramento di un cane si deve conoscere a fondo il lavoro della razza alla quale esso appartiene.
Elementi fondamentali per l’addestramento bracco italiano
In merito all’addestramento del bracco italiano l’addestratore deve sapere come questa razza ha l’andatura, quale è il sistema di cerca, quando il lavoro dell’allievo è in stile di razza e quando non lo è, ecc.; deve inoltre avere nozioni in merito al sistema nervoso di quella determinata razza onde sapersi regolare sulle modulazioni sonore da adottare nell’impartire gli ordini.
Spesse volte metto ai miei bracchi nomi di più sillabe. Sarebbe cosa sbagliata per una razza galoppatrice mentre per il “filosofo pensante” il nome lungo non e di nessun detrimento anzi di utilità pratica, non per il proprietario del cane, ma per il bracco: cane a riflessi lenti. Il nome monosillabo incita il cane alla prontezza nel richiamo ed in questo caso il nostro bracco ne viene disturbato nell’azione perché la prontezza non fa parte del suo temperamento, viene ora ad essere interrotta la regolarità del suo abituale sistema di lavoro.
Anche il fischio di richiamo non deve essere aggressivo. La chiamata non deve essere suonata perentoriamente: deve essere un invito al ritorno, che il bracco eseguirà colla sua consueta spontanea ubbidienza se in aria non ha captato, in quel momento, emanazioni sospette.
Il fischio perentorio deve essere tenuto di riserva e servirà solo nei casi in cui il vostro ausiliare si sarà troppo allontanato, oppure lo userete come frustata ai timpani in caso di errore: per esempio frullo o rincorsa. L’addestramento del bracco italiano deve avvenire più con gesti che con la voce, più con la voce che non col fischio. Il bracco italiano è in caccia un collaboratore e come tale deve essere trattato: educatamente, affettuosamente, come se fosse un vostro familiare. Così facendo avrete da lui l’amore, la fiducia, il rispetto per il
padrone. Così trattato renderà maggiormente agli effetti del carniere ed avrete la soddisfazione di avere un vero ausiliare che con voi e per voi opera per i pratici fini della caccia. A caccia o in gara il cane inglese sta per andare fuori mano: fischiate in maniera rabbiosa ed ecco che galoppatore, come percosso da una scudisciata, vira prontamente, corre veloce diritto a voi per galoppare imperterrito verso l’altro lato, a compimento del lacet. Nelle stesse condizioni, fischiate al bracco, che cambia direzione non prontamente ma dopo qualche passo. Ecco il cane della ragione.
Non sono automi
I continentali italiani non sono automi, i nostri cani non sono robots: sono cani da caccia nel vero senso della parola, ausiliari che intendono la caccia lotta colla selvaggina e non un modo per sfogare il desiderio di correre.
I continentali italiani vanno a caccia per cacciare: essi cacciano per sé e per il cacciatore ma, ripeto, rifuggono inutili sistemi di addestramento coercitivo, adatti invece per razze dai riflessi nervosi ad altissimo potenziale di reattività.